Guglielmo Giovanni Maria Marconi nacque a Bologna il 25 aprile 1874, da Giuseppe, ricco proprietario terriero, e Annie Jameson, irlandese, nipote del fondatore della nota distilleria Jameson&Son.
Trascorse l’infanzia nella villa di famiglia nei pressi di Sasso Marconi (BO), dove ricevette un’istruzione prevalentemente privata, saltuaria e d’impostazione fortemente sperimentale. Questo, assieme alla frequentazione dello scienziato Augusto Righi, segnò indelebilmente il suo percorso. Ancora giovanissimo, infatti, cominciò a dedicarsi da autodidatta agli esperimenti di trasmissione dei segnali a distanza, fino a quando, tra l’estate e l’autunno del 1895, l’apparecchio a cui stava lavorando riuscì a trasmettere e ricevere segnali per oltre un miglio, anche in presenza di ostacoli naturali.
La sensazionalità e l’utilità delle sue invenzioni resero necessario il suo trasferimento nel Regno Unito, al fine di ottenere più agevolmente i finanziamenti per il perfezionamento dei suoi lavori. Si trasferì a Londra e lì, il 2 luglio 1897, ottenne il brevetto per un sistema di telegrafia senza fili. In quello stesso periodo, inaugurò anche la prima azienda di sua proprietà, la Wireless Telegraph and Signal Company.
Di pari passo alla crescita della sua fama, anche le sue invenzioni si affinarono sempre di più, sino a consentire trasmissioni di segnali oltreoceano. Queste sperimentazioni vennero definitivamente messe a punto nel 1907, tanto che nell’ottobre di quello stesso anno la sua azienda, ribattezzata Marconi Company, inaugurò il primo servizio pubblico di radiotelegrafia attraverso l’oceano Atlantico, permettendo alle navi di lanciare l’SOS senza fili.
L’utilità del radio soccorso in mare si rese palese il 23 gennaio 1909, quando grazie all’efficienza di questo apparecchio si riuscirono a salvare gli oltre 1700 passeggeri del transatlantico Republic, che stava per affondare a causa di uno speronamento.
Questo evento di risonanza mondiale fu decisivo anche per l’assegnazione del premio Nobel per la fisica di quello stesso anno, che Marconi condivise con il fisico tedesco Carl Ferdinand Braun.
Gli anni successivi continuarono fitti di sperimentazioni e progressi, soprattutto a partire dal 1919 quando acquistò il panfilo “Elettra”, che allestì a stazione per le sue ricerche, dando vita ad alcuni dei più celebri esperimenti di trasmissione di segnali tra un continente e l’altro.
Negli anni a seguire, Marconi fu insignito di diverse cariche istituzionali: nel 1927, fu nominato presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e, nel 1930, della Regia Accademia d’Italia, diventando automaticamente membro del Gran consiglio del fascismo.
Inoltre, quando il 12 febbraio 1931 fu inaugurata la stazione della Radio Vaticana, il cui saluto di apertura venne tenuto dallo stesso Marconi e dall’allora pontefice Pio XI, questo servizio gli valse la nomina di Accademico pontificio e il conferimento della Gran croce dell’Ordine di Pio IX.
A seguito di una grave crisi cardiaca, Guglielmo Marconi morì a Roma il 20 luglio 1937.
La rilevanza nazionale della sua figura e la considerazione del suo ingegno furono manifestati con la celebrazione dei funerali di Stato, cui parteciparono eminenti personalità del tempo, tra cui lo stesso Benito Mussolini, assieme a una folla di oltre 500 mila persone. Il suo volto venne anche inciso anche nelle banconote da 2000 lire emesse tra il 1990 e il 1992.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Bologna, Stato civile italiano, Bologna, Registro 287
A margine, presente la nota di cancelleria che segna l’avvenuto matrimonio con la prima moglie, l’irlandese Beatrice O’Brien, che venne celebrato a Londra il 16 maggio 1905 e dalla quale Marconi divorziò nel 1924. Poco sotto, è segnato l’atto di matrimonio con la seconda moglie, Maria Cristina Bezzi-Scali, avvenuto a Roma il 12 giugno 1927.
Per approfondimenti sulla figura di Guglielmo Marconi, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Maria Grazia Ianniello.
Mi chiamo Angelo Gallardi, vivo in Argentina e come molti altri discendenti di immigrati, il mio interesse per la genealogia si è risvegliato raccogliendo i documenti per la cittadinanza italiana, poco più di 4 anni fa. L’interesse non si è fermato a quei documenti e partendo da un piccolo e limitato albero che ho fatto da bambino come compito per la scuola, ho aggiunto lentamente innumerevoli nomi e ho scoperto molte persone e eventi che li circondavano, di cui sono sicuro che né i miei nonni e forse neanche i miei bisnonni, conoscevano. Nel corso del tempo, ho scoperto a casa di mia nonna una scatola piena di fotografie antiche con alcune persone che conoscevo e altre no. A poco a poco, e grazie alle annotazioni sul retro di alcune fotografie, ho associato volti a persone che avevo già nel mio albero.
Questa storia è legata alla mia trisnonna, Maria Gaja (o Gaia, come compare in alcuni documenti, anche se Gaja è come è stata annotata nel suo atto di nascita ed è quello che considero valido), e in particolare a una fotografia nella scatola.
Maria Gaja (o Carolina Gallardi, come la chiamavano per il suo cognome da sposata) nacque il 3 ottobre 1868 ad Alpignano, e ho scoperto che suo padre, Carlo Gaja, morì appena 3 giorni dopo, alla giovane età di 30 anni. Nell’atto di nascita di Maria si può leggere in riferimento a Carlo e non stato presentato da quest’ultimo il detto bambino attesa la grave di lui malattia. In questo modo, Marietta Spinoglio, moglie di Carlo e madre per la prima volta, rimase vedova all’età di 20 anni con una bambina appena nata.
D’altra parte, c’è la foto della scatola, piuttosto rovinata e maltrattata, anche se (per fortuna) con tutti i volti intatti: in essa si trova Maria Gaja, di circa 28 anni, insieme a 6 bambini (alcuni già adolescenti). Conoscevo alcune foto di Maria già anziana, e quindi non è stato difficile riconoscerla da giovane. Ma… chi erano gli altri 6 bambini e perché erano tutti nella stessa foto? Qual era la relazione della mia trisavola con loro? A peggiorare le cose, le annotazioni sul retro, dove erano chiaramente indicati i nomi di ognuno, erano scarsamente leggibili e incomplete dove la carta era strappata. Marietta rimase vedova molto giovane, quindi non potevano essere figli suoi con Carlo. E se si fosse risposata e avesse avuto altri figli? Era la cosa più probabile, ma dovevo verificarlo e non sapevo né dove cercare, né in quali date.
La risposta su chi fossero me l’ha data un’annotazione sul retro dell’unica foto che ho di Marietta, che dice “Maria Spinoglio Rueff / Mamma di Carolina, Bianca, Mercedes, Rina, Edmondo, Dino”. Attualmente vedo chiaramente i nomi, ma in quel momento non capivo del tutto la calligrafia, anche se vedevo chiaramente “Mamma di…” seguito da 6 nomi. Un problema era risolto: erano fratellastri di Maria! Marietta si sposò con un uomo di cognome Rueff e ebbe altri figli. Quest’uomo era Antonio Rueff, del quale c’era anche una foto con il suo nome sul retro.
Ora, c’erano altre domande: Quando e dove si sono sposati Marietta e Antonio? Quando e dove sono nati i loro figli? Beh, è passato molto tempo prima che potessi sapere tutto questo. La risposta alla seconda domanda è stata ciò che ho trovato per primo. Ho cercato senza successo ad Alpignano (dove è nata Maria), Moncalvo (dove sono nati Marietta e Carlo Gaja) e dintorni. Poi ho cercato, parrocchia per parrocchia, tra i numerosi archivi parrocchiali su Family Search relativi a Vercelli, città dove Maria Gaja e Giuseppe Gallardi si sono sposati e dove Marietta risultava vivere nell’atto di matrimonio di entrambi. Ho avuto la fortuna di trovare i nati di 3 dei bambini: Romualdo (1887, qui ho capito che “Dino” era in realtà Romualdo), Edmondo (1888) e Rina (1893). Per quanto abbia cercato, non ho trovato né Bianca né Mercedes.
Il successivo progresso significativo nella ricerca è avvenuto quando, con date approssimative e grazie all’aiuto dell’Ufficio di Stato Civile di Vercelli, ho trovato gli atti di morte di Marietta Spinoglio (1907, a 58 anni) e Antonio Rueff (1911, a 68 anni) in quella città. Nell’atto di Marietta si trovava un dato chiave per avanzare con la ricerca: uno dei dichiaranti era suo figlio Romualdo, che al momento risiedeva a Torino. Pertanto, l’indagine è proseguita a Torino e nei suoi indici di nascita, matrimonio e morte. Lì, ho scoperto che Bianca aveva sposato nel 1905 con Beniamino Giuseppe Panigata. A sua volta, i documenti allegati al matrimonio mi hanno fornito il dato che cercavo: Bianca era nata a Biella nel 1879. Grazie al portale Antenati, ho potuto accedere al suo atto di nascita. Mancava solo Mercedes.
Risulta che tra i nati a Torino c’era un nome che ha attirato la mia attenzione: Teresio Romualdo Mario Beniamino Rueff, nato nel 1907. Risultava essere figlio di Mercedes “dalla sua unione con uomo celibe non parente, nè affine di essa” (il nome del padre non era indicato). Nel registro di nascita di Teresio c’era un’annotazione sul suo matrimonio con Clara Carlotta Toffano nel 1941, a Padova. Infine, tra gli allegati di tale matrimonio, ho scoperto che Mercedes era nata a Intra, Verbania, nel 1884. Nuovamente, grazie ad Antenati, ho potuto vedere questo atto. Finalmente, avevo trovato tutti i bambini.
Ora mancava solo rispondere alla prima domanda: Quando e dove si sono sposati Marietta Spinoglio e Antonio Rueff? Penso che trovare queste informazioni sia stato più difficile che trovare le nascite di tutti i bambini, ma lo riassumerò: dopo aver cercato ad Alpignano, Moncalvo e Vercelli, ho deciso di cercare a Milano, poiché nell’atto di morte di Antonio figurava come suo luogo di nascita (un altro dato chiave). Limitando gli anni tra la morte di Carlo Gaja e la nascita di Bianca Rueff e grazie agli indici di Milano, sono riuscito finalmente a trovare il tanto cercato matrimonio: entrambi si sposarono a Milano alla fine del 1874. Finalmente, la famiglia era completa.
Cosa è successo alla vita di ciascuno dei bambini? Bene, ho continuato a cercare e attualmente so che:
Bianca (il cui secondo nome era Maria) è rimasta vedova nel 1921 alla morte di Beniamino a 51 anni, dopo 16 anni di matrimonio. Nel 1924 si è risposata, questa volta con il Dott. Desiderio De Stefanis. È morta a Bordighera nel 1944, a 64 anni.
Mercedes (il cui secondo nome era anche Maria) si è sposata a Venezia nel 1931 con il “dottore in legge” Giacomo Roncali, e probabilmente ha vissuto lì fino alla sua morte. Giacomo ha adottato Teresio (il figlio di Mercedes) nel 1937. Recentemente sono riuscito a parlare con una nipote di Teresio e Clara (figlia di un fratello di Clara) che vive in Messico, la quale gentilmente mi ha fornito ulteriori dettagli sulle loro vite e sul loro periodo trascorso in quel paese.
Romualdo (nome dato in onore del suo padrino Romualdo Spinoglio, fratello di Marietta, e il cui nome completo nel suo atto di battesimo è Romualdo Carlo Aristide Antonio Rueff) si è sposato con Elvira Prat (non so dove né quando) ed emigrarono in Argentina intorno al 1910. A Buenos Aires sono nati due figli (1912 e 1914). Poi, nel 1920, hanno emigrato e si sono stabiliti in Brasile. Che sia per divorzio o per la morte di Elvira, Romualdo si è risposato con Maria Wobeto nel 1952, e hanno avuto, per quanto ne so, 2 figli. Ho trovato attualmente discendenti dal primo e dal secondo matrimonio, ma sono riuscito a parlare solo con un discendente del secondo. Non ho mai saputo cosa sia successo a Elvira né al suo figlio nato nel 1914. Romualdo è morto in Brasile nel 1961, a 74 anni.
Edmondo (il cui vero primo nome era in realtà Placido, probabilmente in onore di Placida Spinoglio, sua madrina e sorella di Marietta, e il cui nome completo nel suo atto di battesimo è Placido Edmondo Giovanni Rueff) morì all’età di soli 26 anni nel 1915, durante la Prima Guerra Mondiale, e fu decorato nel 1916 con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Nel sito dell’Istituto del Nastro Azzurro si descrive la motivazione di tale distinzione: “Mentre combatteva strenuamente per mantenere una posizione di grande importanza, veniva colpito a morte”. In una delle sue foto della scatola si legge sul retro: “Nella grande guerra colpito morto mentre portava un ordine al comando”. Infine, nell’Albo d’Oro dei militari italiani caduti nella Grande Guerra si legge a suo riguardo: “Sottotenente in servizio attivo 12° reggimento bersaglieri, nato il 5 ottobre 1888 a Vercelli, distretto militare di Vercelli, morto il 1° giugno 1915 nel Settore di Tolmino per ferite riportate in combattimento”.
Di Rina (il cui nome completo nel suo atto di battesimo era Rina Margarita Luigia Rueff, probabilmente in onore del suo padrino Luigi Spinoglio, un altro fratello di Marietta), non hotrovato altro che il suo certificato di battesimo. L’ho vista solo nominata nel 1941 nell’obitorio di Giuseppe, marito di Maria Gaja, insieme a Bianca e Mercedes:
Alcuni potrebbero chiedersi, ma… non erano 6 i bambini sconosciuti? Fino ad ora ho parlato solo di 5. Beh, la questione è che non sono mai riuscito a sapere chi fosse la ragazza a destra nella foto, quella che si trova di profilo. Tutto indica che non sia figlia di Marietta (nei nomi della foto di lei non compare come sua figlia).
Io penso che fosse figlia di un matrimonio precedente di Antonio Rueff, dato che sembra essere più grande di Bianca. Questa è stata una delle domande che ho fatto all’unico discendente di Romualdo con cui ho potuto parlare (una persona del Brasile). Lui si impegnò a chiedere nella sua famiglia, ma la sua risposta non mi è mai arrivata.
Finalmente, sapere tutto questo sarebbe stato impossibile senza le note dietro alle foto. La scatola delle foto conteneva una vecchia busta con scritto “Fotografie Carolina Gallardi Gaja e figli”, che suppongo Maria, ormai anziana, abbia inviato a suo figlio (il mio bisnonno) in Argentina, dato che fino a quanto ne so, non c’era nessun altro a cui lasciarle in Italia una volta che lei non ci fosse più (i suoi due figli erano emigrati in Argentina). Le calligrafie sulla busta e sulle foto sono molto simili, ed è molto probabile che tutte siano state scritte da Maria. Penso che lei non volesse che questa storia si perdesse, e oggi, a quasi 72 anni dopo la sua morte, ha contribuito a evitare che ciò accadesse.
Assunta Adelaide Luigia Saltarini Modotti, detta Tina, nacque il 17 agosto 1896 a Udine, all’interno di una famiglia numerosa e di condizioni assai modeste.
Nel 1905, il padre, Giuseppe, emigrò negli Stati uniti in cerca di fortuna. Per questo motivo, all’età di dodici anni, Tina fu costretta a lavorare come operaia presso una fabbrica tessile nella periferia della città. A questi anni risalgono anche le prime frequentazioni dello studio fotografico dello zio paterno, Pietro Modotti, e l’apprendimento dei primi rudimenti di fotografia.
Nel 1913 emigrò anche lei, raggiungendo il padre e una delle sue sorelle. Lì, dopo un periodo come operaia, iniziò a posare come modella e si avvicinò alla recitazione, ottenendo un discreto consenso e apprezzamento.
Nel 1918, sposò il pittore e poeta Roubaix de l’Abrie Richey, soprannominato Robo, con il quale si trasferì a Los Angeles. Fu lui a introdurla negli ambienti politicamente e artisticamente più stimolanti della città e a presentarla al fotografo di fama internazionale Edward Weston, che presto divenne il suo maestro nell’arte fotografica. Dal canto suo, Modotti divenne la sua modella preferita, la sua musa e, infine, la sua amante.
Assieme si trasferirono in Messico, dove viaggiarono a lungo scattando fotografie che venivano pubblicate su diverse riviste, ottenendo premi e riconoscimenti. La bravura di Modotti cresceva di pari passo al suo stile, che si faceva via via più definito e personale: la fotografia divenne lo strumento per veicolare messaggi che avevano una portata antropologica, sociale e politica sempre più forte, denunciando la povertà, il degrado e la disparità sociale.
Divenne la fotografa ufficiale del movimento muralista messicano e cominciò a prendere parte a diverse forme di attivismo. Questo suo coinvolgimento e le sue amicizie influenti – come, ad esempio, con la pittrice Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera – le offrirono la fama, consacrando il periodo più intenso della sua arte.
Tuttavia, a causa di alcuni scandali e accuse infondate che la vedevano coinvolta come complice tanto nell’omicidio del suo compagno dell’epoca, Julio Antonio Mella, quanto dell’attentanto al presidente Pascual Ortiz Rubio, Tina Modotti venne espulsa dal Messico nel 1930. Da quel momento, smise di fotografare per tutti i dodici anni che le rimasero da vivere.
Si trasferì a Berlino, da dove viaggiò a lungo e in largo tra l’Europa e l’Unione Sovietica. E, nel 1935, assieme al suo nuovo compagno, Vittorio Vidali, partecipò alla Guerra civile spagnola, fino al 1939, quando assieme fecero ritorno in Messico sotto falso nome.
Tina Modotti morì il 5 gennaio 1942 a Città del Messico.
Secondo alcuni fu uccisa a seguito del suo coinvolgimento in molti scenari politici, essendo diventata ormai una presenza scomoda; secondo altri, a seguito di un arresto cardiaco. Fu il poeta Pablo Neruda a comporre l’epitaffio che campeggia sulla sua lapide, nel cimitero Panteón de Dolores nella capitale messicana, dove venne sepolta.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Udine > Stato civile italiano > Udine > 1896
Per approfondimenti sulla figura di Tina Modotti, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Giuliana Muscio.
Leopoldo Cassese nacque ad Atripalda (AV) il 20 gennaio 1901.
Dopo la laurea in Lettere nel 1925 presso l’università Federico II di Napoli, si diplomò presso la Scuola per archivisti e bibliotecari paleografi di Firenze, dove fu allievo di Luigi Schiaparelli, con il quale collaborò anche alla stesura della Guida storica e bibliografica degli Archivi e delle Biblioteche d’Italia.
Nel 1930, divenne direttore dell’Archivio di Stato dell’Aquila; di questo periodo si ricordano il suo Studio sull’antico Archivio del Comune di Aquila e la trascrizione del Codice degli Statuti del Comune (secc. XIII-XIV).
A partire dal 1934, invece, ricoprì lo stesso incarico presso l’Archivio di Stato di Salerno, fino alla sua morte. Anche qui si dedicò all’attività di studio e ricerca, pubblicando la Guida storica dell’Archivio di Stato di Salerno e maturando di un vivo interesse verso il passato della Scuola Medica Salernitana, di cui studiò approfonditamente i documenti sopravvissuti e conservati in Archivio di Stato.
Parallelamente all’attività dirigenziale, a partire dal 1951 si dedicò anche alla libera docenza universitaria, in qualità di professore di Archivistica sia presso la Federico II di Napoli sia presso la Sapienza di Roma.
Orientò, inoltre, i suoi interessi verso la storia del meridione italiano e in particolare alle lotte contadine fra Otto e Novecento, complice anche l’avvicinamento al marxismo che aveva avuto con l’approssimarsi della Seconda Guerra mondiale e l’influenza di alcune amicizie come quella di Piero Gobetti, Giorgio Pasquali, Luigi Russo e Tommaso Fiore e con i conterranei Guido Dorso e Carlo Muscetta.
Durante il periodo bellico, si adoperò per la messa in sicurezza dei i materiali archivistici dai bombardamenti e, una volta terminato il conflitto, si dedicò laboriosamente all’opera di ricostruzione e riqualificazione – attraverso mostre, dibattiti, conferenze – di tutto quel patrimonio documentario e culturale che aveva particolarmente a cuore.
Leopoldo Cassese morì a Roma il 3 aprile 1960.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Avellino > Stato civile italiano > Atripalda > 1901
Per approfondimenti sulla figura di Leopoldo Cassese, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Pietro Laveglia.
Archivio di Stato di Avellino > Stato civile italiano > Atripalda > 1901
Luigi Numa Lorenzo Einaudi nacque a Carrù (CN) il 24 marzo 1874.
Rimasto presto orfano di padre, si trasferì a Dogliani, paese natale della madre, assieme a lei e i suoi tre fratelli. Frequentò il convitto nazionale Umberto I di Torino e si diplomò con successo al liceo classico Cavour, per poi laurearsi con il massimo dei voti in Giurisprudenza presso l’Ateneo della stessa città. Durante quegli anni, partecipò anche al Laboratorio di economia politica, fondato e diretto dall’economista Salvatore Cognetti De Martiis, che fu il suo primo mentore.
Proprio al periodo universitario risale il suo avvicinamento al movimento socialista, grazie anche alla collaborazione con la rivista Critica sociale, diretta da Filippo Turati.
Dopo un breve periodo di insegnamento presso le scuole secondarie – dove conobbe la sua futura moglie, Ida Pellegrini, che era sua allieva in quegli anni -, nel 1902 vinse la cattedra di Scienza delle finanze pressò l’università di Torino. Negli anni successivi, si dedicò all’insegnamento e alla produzione scritta, tanto accademica quanto giornalistica, prestando la firma a migliaia di articoli per numerose riviste come La stampa, Il Corriere della sera e L’Unità.
Il 6 ottobre 1919 venne nominato senatore del Regno d’Italia, su proposta di Francesco Saverio Nitti.
Nonostante una prima condivisione delle scelte economiche compiute da Benito Mussolini, nel periodo successivo Einaudi mostrerà una progressiva e sempre più radicata diffidenza, che lo condurrà a prendere le distanze dal fascismo: sarà infatti uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce nel 1925.
Dietro pressioni esterne giurò formalmente la sua fedeltà al regime per mantenere l’insegnamento universitario, tuttavia fu uno dei senatori che votarono contro la legge elettorale che sanciva la lista unica formata dal Gran consiglio del fascismo (1928), come anche si dichiarò contrario alla Guerra d’Etiopia e alle leggi razziali del 1938.
Conclusa la guerra e caduto il regime fascista, Einaudi fu nominato rettore dell’Università torinese. Trasferitosi in Svizzera con la moglie e i suoi tre figli, si dedicherà alla produzione scritta, rivelandosi un “europeista ante litteram”, che auspicava un’Europa federalista, in virtù di quel principio di cooperazione internazionale in cui credeva fermamente.
L’11 maggio 1948 lo statista piemontese fu eletto Presidente della Repubblica con 518 voti su 872 (59,4%), rimanendo in carica fino all’11 maggio 1955.
Morì a Roma il 30 ottobre 1961.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Cuneo > Stato civile italiano > Carrù > 1874
Mi chiamo Regina Helena Scavone Posvolsky, sono brasiliana, nata a San Paolo e fiera della mia ascendenza italiana. Il primo membro della famiglia Scavone, della quale io sono una discendente, arrivò in Brasile nel 1886 proveniente da Tito, comune italiano della provincia di Potenza, Basilicata. È trascorso poco più di un secolo e mezzo dall’arrivo in terra brasiliana del mio trisavolo e sapendo che tramandare oralmente le memorie non è il modo più efficace per perpetuare la storia della famiglia, ho deciso di scrivere un libro sui miei ascendenti paterni. A tal fine sono ricorsa ad innumerevoli fonti che vanno dai documenti religiosi archiviati nelle parrocchie e nelle diocesi, alle ricerche realizzate presso gli uffici anagrafici, passando attraverso la collezione dei periodici (giornali, riviste, almanacchi) disponibili nella Emeroteca Digitale e non meno importanti siti genealogici quali, Portale Antenati e Family Search. Senza dimenticare l’importanza che i familiari più anziani rappresentano in questo contesto, mi sono resa disponibile ad ascoltarli ed interrogarli sul loro lontano passato, ho rivisto fotografie e ho visitato i luoghi che fecero parte della vita dei miei antenati. Il riscatto della nostra storia familiare è un viaggio personale alla ricerca della propria identità ed esige impegno, determinazione e soprattutto passione. La città di Tito dell’Ottocento, periodo su cui ho concentrato le mie ricerche, si è rivelata un piccolo villaggio formato da nuclei familiari costituiti da determinate famiglie, i cui cognomi nei registri di nascita, matrimonio e morte, si ripetono spesso. Ancora oggi a Tito il cognome Scavone è tra i più diffusi. È facile concludere che molti matrimoni avvenissero tra membri della stessa famiglia e che quando ciò non avveniva si trattava di matrimoni tra famiglie che mantenevano rapporti, ciò dava origine ad una estesa rete di parenti che garantiva mutuo supporto nei vari momenti della vita.
Il mio trisavolo, Gerardo Scavone, figlio di Vitonicola Laviero Scavone e Caterina Maria Agnesa Laurino, si sposò il 3 luglio 1847 con Angiolina Salvia, figlia di Gerardo Salvia e Giuseppa Giosa, entrambi nati a Tito. La coppia di contadini ebbe sette figli dei quali sembra che solo Laviero Salvatore abbia raggiunto l’età adulta. La mia trisavola, Angiolina Salvia, morì intorno al 1865. Rimasto vedovo, Gerardo Scavone (41 anni), si risposò con Rosina Giosa (27 anni). La coppia ebbe tre figli ma solo Carlo raggiunse la maturità.
Nel dicembre del 1886, a 62 anni, Gerardo e la sua seconda moglie, Rosina Giosa e il figlio Carlo, sbarcarono a Rio de Janeiro e di lì, furono inviati alla Hospedaria dos Imigrantes, struttura localizzata in San Paolo, nella quale restarono per un breve periodo.
Viene da chiedersi cosa fu che spinse un uomo di 62 anni a lasciare la sua patria, ad allontanarsi da parenti e amici, a rompere con tutto quello che gli dava una qualche sensazione di sicurezza, protezione e conforto emotivo, per stabilirsi in un altro Paese. Fu coraggio o disperazione? In realtà fu la scarsità di terra, la fame e la miseria. Dall’altro lato, le notizie che arrivavano dall’estero parlavano di un Paese dell’America del sud in cui la terra era abbondante, il suolo fertile e il clima gradevole, dove qualunque cosa si piantasse cresceva rigogliosa e nel quale cercavano agricoltori per lavorare la terra. La possibilità di acquisire terre e prosperare, attirarono una generazione di italiani scontenti della vita che avevano. Fu così che a milioni lasciarono l’Italia e tra loro, la famiglia Scavone.
Differentemente dalla maggioranza degli immigranti che si dirigevano verso l’interno del Paese al fine di lavorare nell’agricoltura, il mio trisavolo Gerardo, sua moglie e il figlio, si stabilirono in San Paolo decisi ad abbandonare la vita contadina. Desideravano attività urbane, commerciali o artigianali.
Il mio bisnonno, Laviero Salvatore Scavone, figlio di Gerardo Scavone e Angiolina Salvia, nato l’11 novembre 1848 a Tito, fu battezzato il giorno 17 novembre, data in cui si festeggiava il giorno di San Laviero martire, patrono e protettore della città e, in suo omaggio, ne ricevette il nome.
Nel 1871, Laviero Salvatore, conosciuto semplicemente come Salvatore, si sposò con la sorella della sua matrigna, una giovane di nome Filomena Giosa. La coppia ebbe quattro figli. Solo Angiolina sopravvisse. Filomena morì nel 1880, tre mesi dopo la nascita del quarto figlio, il quale morì pochi mesi dopo. La vedovanza precoce colpì il mio bisnonno, così come era avvenuto con il mio trisavolo, Gerardo e il padre di quest’ultimo, Vitonicola Laviero.
Nel 1885 Salvatore si risposò con Concetta Caprio (Tito, 23/10/1863 – San Paolo, 30/05/1948), figlia di Antonio Caprio, proveniente da Marsico Nuovo e di Lucia Di Giurni, anch’essa di Tito. La coppia ebbe sette figli: Gerardo, Lucia, Antonio (mio nonno), Elvira e Francesco Michele, nati a Tito; José e Geraldo nati a San Paolo. I figli Gerardo, Lucia ed Elvira morirono a Tito all’età di un anno circa. Di fronte ad uno scenario di assoluta miseria e attratto dalla figura del padre che già si trovava a San Paolo, Salvatore decise di emigrare. La possibilità di poter contare sull’aiuto paterno per la ricerca di un lavoro e di un alloggio gli diede il coraggio di prendere la difficile decisione.
Laviero Salvatore partì il 12 marzo 1895 da Genova, a bordo della nave Rosario, lasciando i figli e la moglie Concetta che era in stato interessante.
Con il marito in Brasile, Concetta sentiva la famiglia incompleta e, trascorsi 5 anni, l’umile contadina e i figli: Antonio (10 anni) e Francesco Michele (quattro anni), che il padre ancora non conosceva, partirono da Genova a bordo della nave Sempione. Sbarcarono in Brasile il 14 marzo del 1900. Finalmente la famiglia era al completo, si stabilirono in San Paolo, nel quartiere Consolação.
Così come a Tito, anche in terra brasiliana mantennero una estesa rete di relazioni formata da parenti e conterranei. In tali relazioni prevaleva un sistema di mutua assistenza basato sulla solidarietà e la reciprocità. Non era raro che l’aiuto fosse anche di natura economica. Di regola abitavano tutti molto vicini, a volte nella stessa via o a pochi isolati di distanza e si facevano visita con frequenza.
La famiglia visse unita poco più di sei anni. Laviero Salvatore morì il 2 maggio 1906 a seguito delle lesioni provocate dal calcio di un cavallo. Lasciò la moglie Concetta (42 anni) e i figli Antonio (17 anni), Francesco Michele (10 anni), José (5 anni) e Geraldo (due anni).
Furono tempi difficili, Concetta dipendeva dai guadagni del marito e dovette andare a lavorare come lavandaia. Non si risposò. Anziana e con problemi cognitivi, sognava di imbarcarsi su una nave diretta In Italia. Desiderava reincontrare familiari e amici, camminare per le vie che un tempo frequentava. La mia bisnonna morì senza riuscire a realizzare il suo grande sogno. Penso che forse sia stato meglio così. La Tito di mezzo secolo prima, quella che conosceva la mia bisnonna, non esisteva più.
La coppia di contadini Laviero Salvatore Scavone e Concetta Caprio aspettava l’arrivo del terzo figlio. Mio nonno, Antonio, nacque mercoledì 24 aprile 1889 nella casa dei suoi genitori, in via Municipio, a Tito.
Il ragazzino, di carnagione scura e occhi verdi, lasciò la città poco prima di compiere undici anni. Degli innumerevoli ricordi che albergavano nella sua memoria rimasero il sinistro ululare dei lupi al calare della notte e la fontana pubblica, costruita nel 1869 in Piazza del Seggio, proprio nel cuore della città, dove il nonno fissò la sua memoria.
Dopo la morte del padre, Antonio divenne il capofamiglia. Al lato della madre, Concetta Caprio, lavorò ostinatamente per far fronte alle necessità familiari. Nel 1912, alla ricerca di orizzonti più promettenti, si recò a Rosario, in Argentina. Non riuscendo ad adattarsi, tornò a San Paolo.
Il nonno era un uomo umile, un calzolaio che aveva studiato poco, aveva una piccola bottega nel cortile di casa nella quale riparava e confezionava calzature. Nel 1921, all’età di 31 anni, si sposò con Maria Natividade Azurem (1900 – 1977), un’orfana cresciuta ed educata in un orfanatrofio gestito dalla Santa Casa de Misericórdia de São Paulo, dove ricevette un’educazione estremamente religiosa e conservatrice. All’orfanotrofio, oltre alle materie tradizionali, apprese vari mestieri manuali quali taglio e cucito, crochet, tricot, ricamo, mestieri che le permisero di contribuire alla rendita familiare.
La coppia ebbe quattro figli: Salvador, Maria José, Carlos ed Helio (mio padre).
Si sposarono tutti ma solo Carlos ed Helio ebbero discendenti. Antonio Scavone morì nel 1958 senza mai essere tornato a Tito, ma i suoi racconti resistettero al tempo.
Nel 1992 i miei genitori, Helio e Sylvia, andarono a Tito. Papà voleva vedere da vicino quei luoghi che tante volte erano stati descritti dal suo defunto padre, in particolare la fontana di Tito, il ricordo più emblematico di mio nonno. Camminò per le strade strette e sinuose appropriandosi di quell’ambiente. Osservò l’organizzazione dello spazio, le antiche case allineate lato a lato, le facciate preservate e i portoni ad arco. Visitò le chiese, i pochi monumenti storici e il cimitero in cui giacevano i suoi antenati. Quando finalmente pose gli occhi sull’antica fontana, tutto quello che suo padre gli aveva raccontato su Tito divenne realtà.
Nel 2014 io e mio marito, Cassio Posvolsky, andammo a Tito. Arrivammo in un pomeriggio nuvoloso. Soffiava un venticello freddo. Ci addentrammo nella città attraverso Via Vittorio Emanuele. In quel momento smisi di essere il copilota di mio marito. Volevo solo osservare il paesaggio, fissare nei miei occhi le immagini che si succedevano nella misura in cui l’auto avanzava. In fondo alla strada, quando vidi la fontana, un solo pensiero si formò nella mia mente: “sono arrivata alla casa di mio nonno!” È nei ricordi del passato che affermiamo la nostra identità.
La storia del ramo familiare al quale appartengo è costituita in maniera preponderante da persone umili, contadini, analfabeti. Arrivarono in Brasile spinti dalla fame, dalla miseria e qui si stabilirono. Non fecero fortuna, ma prosperarono. Ci hanno lasciato un’eredità di coraggio, fede, speranza, valori etici e morali che guidano le nostre vite. Devo a loro la mia esistenza.
Salvatore Ferragamo – registrato all’anagrafe come Salvadore – nacque a Bonito (AV) il 5 giugno 1898.
Undicesimo di quattordici figli, dovette cominciare a lavorare all’età di 9 anni per aiutare la famiglia che viveva in condizioni economiche disastrate: iniziò l’apprendistato presso la bottega del calzolaio del paese, dove la sua naturale propensione verso la professione e l’innata abilità lo portarono presto ad aprire un’attività in proprio. All’età di 14 anni, infatti, era già un piccolo imprenditore, che aveva alle sue dipendenze ben quattro lavoratori.
Nel 1914, si trasferì negli Stati Uniti per raggiungere alcuni dei suoi fratelli, emigrati prima di lui alla ricerca di fortuna. Trovò facilmente lavoro, riuscendo anche lì ad aprire una propria attività, prima a Santa Barbara e poi a Hollywood.
Parallelamente, seguì diversi corsi serali e per corrispondenza presso diverse università americane, tra cui anatomia, matematica e ingegneria chimica; tutte discipline che gli fornirono una solida base tecnico-scientifica per perfezionarsi nel suo lavoro.
L’apertura dell’Hollywood Boot Shop, nel 1923, lo consacrò definitivamente come “il calzolaio delle stelle”, tale era la richiesta dei divi hollywoodiani per acquistare da lui scarpe personalizzate e su misura, ricche di inventiva e creatività. La richiesta di produzione crebbe a tal punto da indurlo a rientrare in Italia e trasferirsi a Firenze, dove aprì un laboratorio manuale di calzature, in cui circa 60 dipendenti realizzavano scarpe sui modelli da lui disegnati.
Dopo un breve periodo di crisi all’inizio degli anni ’30, l’attività di Ferragamo si potenziò notevolmente, portando il suo nome all’attenzione internazionale e aprendo filiali in varie città europee. Nel 1937, inoltre, brevettò una delle sue più celebri creazioni, il tacco a zeppa di sughero, che divenne una moda di successo a livello mondiale; mentre, nel 1947 ricevette, insieme a Christian Dior, il Neiman Marcus Award, considerato l’Oscar della moda riservato ai professionisti del settore distintisi a livello internazionale.
Negli anni Cinquanta, grazie all’ascesa della moda italiana e del boom economico, l’azienda Ferragamo registrò una crescita significativa, contando circa 700 dipendenti e una produzione giornaliera di 350 paia di scarpe, ancora realizzate prevalentemente a mano.
A seguito di alcune complicazioni del suo stato di salute, morì a Firenze il 7 agosto 1960.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Avellino > Stato civile italiano > Bonito > 1898
Per approfondimenti sulla figura di Salvatore Ferragamo, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Valeria Pinchera.
L’archivio di Salvatore Ferragamo – che conta numerose calzature, borse, brevetti, disegni, fotografie e altri accessori – è conservato presso l’omonimo museo, inaugurato nel 1995 presso la storica sede dell’azienda, a Firenze.
Egle Renata Romana Trincanato nacque a Roma il 3 giugno 1910.
Ebbe un’infanzia segnata dai frequenti trasferimenti a seguito del lavoro del padre, Alessandro Ernesto, che era un commerciante originario di Piove di Sacco (PD); la madre, Alice Antonietta Formenti, invece, era una modista.
Solo nel 1926, i Trincanato si trasferirono definitivamente a Venezia; dove, dopo il diploma di maturità artistica, Egle si iscrisse al Regio Istituto Superiore di Architettura. Fu durante il percorso universitario che conobbe Guido Cirilli, suo primo maestro, e l’architetto palermitano Giuseppe Samonà, cui fu legata da un profondo sodalizio professionale e affettivo e con il quale, negli anni successivi, collaborerà a numerosi progetti, come l’edificio INA-Casa di Treviso (1949-1953), i nuovi uffici dell’INAIL a Venezia (1951-1956) e l’ideazione sperimentale del quartiere INA-Casa San Giuliano a Mestre.
Nel 1938, fu la prima donna a conseguire la laurea in Architettura presso l’ateneo veneziano, ottenendo il massimo dei voti. Cominciò subito a esercitare la professione, mantenendo attivo anche l’insegnamento nei licei. Sin dall’inizio, i suoi interessi furono orientati verso l’urbanistica veneziana, con uno sguardo al passato e un occhio rivolto al moderno.
La sua tempra è ben palesata da un episodio del 1947, quando, in occasione di un bando del comune per la qualifica di Capo Ripartizione della Divisione tecnico-artistica, che escludeva la partecipazione delle donne, Trincanato fece ricorso, ottenendo la modifica del bando.
Le sue pubblicazioni e il suo coinvolgimento in numerosi progetti del comune di Venezia contribuirono in modo significativo all’apprezzamento del suo valore professionale: nel decennio 1954-64, infatti, ricoprì il prestigioso incarico di direttrice di Palazzo Ducale, che lasciò solo quando vinse il concorso per la cattedra di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti presso il Politecnico di Torino. Si occupò, inoltre, di numerosi restauri e curò l’allestimento di molteplici mostre pittoriche.
Nel 1974, divenne vice direttrice dello IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), mentre l’anno successivo fu nominata direttrice dell’Istituto di Rilievo e Restauro, dipartimento da lei ideato, voluto e fondato.
Continuò a ricoprire numerosi incarichi e ricevere premi – tra cui la medaglia d’oro ai Benemeriti della Scienza e della Cultura da parte del Presidente della Repubblica (1997) – lavorando instancabilmente ai suoi progetti e ai suoi scritti fino agli ultimi anni della sua vita.
Morì a Mestre il 5 marzo 1998.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1910
Carlo Rosselli nacque a Roma il 16 novembre 1899, da Giuseppe Emanuele “Joe”, musicista, e Amelia Pincherle, scrittrice teatrale e attivista antifascista, nonché zia paterna del noto scrittore Alberto Moravia.
Appartenente a una delle più abbienti famiglie ebree di Roma, ancora bambino si trasferì a Firenze assieme alla madre, a seguito del divorzio dei genitori.
Nonostante l’iniziale ritrosia nei confronti della scuola, durante la Prima guerra mondiale diede avvio, assieme al fratello Nello, alla rivista Noi giovani, ispirata alle idee liberali e mazziniane.
Questa prima esperienza giornalistica fu l’occasione per lasciar emergere le sue principali inclinazioni: da un lato, lo spiccato interesse verso le questioni internazionali e, dall’altro, la sua solidarietà verso i ceti più popolari, così lontani dal suo status di nascita, verso cui per lungo tempo provò un senso di disagio. Non è un caso che anche la sua tesi di laurea – elaborata sotto la supervisione di Gaetano Salvemini – avesse come oggetto il sindacalismo, tra impegno attivo e coscienza civica.
Alla momento della salita al potere di Mussolini, Rosselli si trasferì a Torino, dove si avvicinò agli ambienti del socialismo liberale, conoscendo personalità del calibro di Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, assieme ai quali partecipò attivamente al dibattito politico, approfondendo e scrivendo ampiamente attorno ai temi del liberalismo e dell’importanza dell’azione politica.
A seguito dell’omicidio Matteotti (1924), che segnò profondamente la sua vita, divenne membro del gruppo dirigente del Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) e, assieme ad altri, si occupò dell’espatrio di alcuni leader socialisti: nel dicembre 1926, infatti, mise in salvo Filippo Turati; gesto che gli costò l’arrestato e cinque anni di confino a Lipari.
Riuscì, tuttavia, a fuggire e raggiungere la Francia, dove, assieme a un gruppo di altri italiani espatriati costituì, nel 1929, il movimento Giustizia e libertà (GL), che raccoglieva socialisti, repubblicani ed esponenti sindacali.
Da lì, si trasferì in Spagna, sposando la causa repubblicana e partecipando attivamente alla guerra civile (1936-1939), a capo di un commilitone che prese il nome di Colonna Italiana. Rimasto ferito durante uno scontro con gli anarchici, Rosselli lasciò il comando della Colonna, decidendo di fare ritornò a Parigi all’inizio del 1937.
Morì assassinato, assieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, in bassa Normandia, in un agguato organizzato dai servizi italiani.
I funerali dei fratelli Rosselli, si svolsero a Parigi il 19 giugno di quello stesso anno, dando luogo a una grande manifestazione antifascista senza distinzione di classe.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1899
Per approfondimenti sulla figura di Carlo Rosselli, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Mauro Moretti.
Caterina Marianna Percoto nacque a S. Lorenzo di Soleschiano sul Natisone (UD) il 19 febbraio 1812.
Figlia di ricchi proprietari terrieri di nobili origini, fu l’unica bambina dei sette figli di Antonio e Teresa Zaina. Venne avviata agli studi presso l’educandato “S. Chiara”, dove rimase fino all’adolescenza, quando la madre, rimasta vedova, non potendo più sostenere la retta, fu costretta a ritirarla e farle proseguire la formazione scolastica da autodidatta, incaricandola anche dell’educazione dei fratelli minori.
Caterina, che si mostrò precocemente dedita alla scrittura, fece il suo debutto letterario nel 1839, sulla Favilla di Trieste, grazie all’amico e padre spirituale don Pietro Comelli, che aveva segretamente inviato alcuni suoi scritti alla rivista: la sua prosa non di maniera, descrittiva, schietta, patriottica e audace, ebbe un immediato successo.
Nell’agosto 1847, uscì nella milanese Rivista europea, diretta da Carlo Tenca, la novella L’Album della suocera. Questo incontro con Tenca fu per lei cruciale, segnando il suo debutto negli ambienti letterari del nord Italia, dove Percoto – seppur sempre relegata nella campagna friulana – partecipò con intense relazioni epistolari con molti personaggi dell’élite culturale dell’epoca.
Poco più tardi, negli anni Cinquanta, iniziò a scrivere anche in lingua friulana, facendosi custode della tradizione e narrativa popolare: nel 1863 furono, infatti, pubblicati, i due volumi dei Racconti, una raccolta di favole friulane editi da Le Monnier.
Oltre l’attività narrativa, proseguì le sue collaborazioni giornalistiche; tra queste, degna di nota, vi fu senz’altro quella con La Ricamatrice. Giornale di cose utili ed istruttive per le famiglie, un periodico dedicato all’educazione della donna, all’interno del quale scrisse numerosi raccontini di impostazione didattico-pedagogica. Proprio il filone della letteratura didascalica femminile fu quello che precorse maggiormente: Caterina Percoto, infatti, con vivacità e con una sensibilità “moderna”, prese a cuore il tema dell’educazione della donna, a suo a viso troppo spesso impreparata a far fronte alle esigenze della vita – familiare e no – e non di rado con un livello culturale e linguistico eccessivamente basso.
Poco dopo l’annessione delle province venete al Regno di Italia, i suoi lavori e questa sua attenzione alla tematica dell’educazione femminile le valsero anche un riconoscimento ufficiale, con la nomina tra le «donne egregie» individuate dal ministro Cesare Correnti per i loro meriti letterari; a lei, nel 1871, fu inoltre affidato l’incarico di ispettrice straordinaria degli istituti femminili veneti di educazione e di carità, al fine di supervisionarne le condizioni e il livello educativo che vi veniva impartito.
Morì a Udine il 15 agosto 1887.
Puoi consultare l’atto di nascita e l’atto di morte di Caterina Percoto sul Portale Antenati: rispettivamente Archivio di Stato di Udine > Stato civile napoleonico > San Lorenzo di Soleschiano (oggi frazione di Manzano) > 1812 e Archivio di Stato di Udine > Stato civile italiano > Manzano > 1887